Quel giorno – era il luglio del 1943 – la veste bianca di Pio XII si macchiò del sangue di qualcuno dei feriti che egli, dopo il terribile bombardamento del quartiere San Lorenzo di Roma, uscito d’urgenza dal Vaticano era andato a confortare e a far sentire la sua presenza di padre e di pastore. C’è al riguardo una memorabile fotografia che lo ritrae assiepato da una folla di volti spauriti mentre allarga le braccia nel caratteristico gesto di quella benedizione che anche il sottoscritto ha tante volte ricevuto. Oggi, ormai da troppo tempo, la figura cristallina di questo angelico pastore è contaminata dagli spruzzi fangosi di quelle calunniose insinuazioni che una critica seria e puntuale non è riuscita a eliminare del tutto. Tanto è vero che, a determinate scadenze, come è successo anche in questi giorni, quelle inconsistenti calunnie riemergono, con disappunto di chiunque abbia conosciuto quel Papa e lo abbia amato come meritano tutti i grandi campioni della fede cattolica. Nessuna calunnia, tuttavia, potrà intaccare nella estimazione di chi ha beneficiato dei suoi insegnamenti la figura ieratica di quel Papa che ha segnato la storia del secolo ventesimo. Per me non c’è bisogno che il Magistero della Chiesa concluda positivamente il processo di beatificazione: egli è già “Santo”. Ne porto addosso una preziosa reliquia e lo invoco con profitto in momenti di particolare bisogno. Il mio primo incontro con Pio XII risale all’ottobre del 1939, quando essendo uno dei milleottocento alunni del Pontificio Istituto “San Filippo Neri” in Roma mi trovai con tutti i miei condiscepoli ad acclamare il Pontefice, da pochi mesi salito alla Cattedra di Pietro, che tornando da Castelgandolfo aveva accettato l’invito del nostro preside e aveva fatto sostare l’automobile che lo riportava in Vaticano. Memorabile quella data perché per il sottoscritto fu il primo e l’unico incontro con la persona del Santo Fondatore, don Luigi Orione. Avendo egli saputo della nostra iniziativa era sceso da Tortona e volle per primo accostarsi all’automobile pontificia ed esprimere a nome di quella foltissima schiera di figli il suo risaputo attaccamento al Papa e alla Chiesa. Così, oggi, nella mia memoria la figura dei due grandi, il Papa Pacelli e il Fondatore don Orione, è indelebilmente unita nella riconoscenza e nell’ammirazione. Dopo quell’ottobre, la bianca figura del “Pastor angelicus” ha accompagnato tutto l’itinerario della mia formazione religiosa e sacerdotale, svoltasi, per mia somma fortuna, sotto il cielo di Roma, a pochissima distanza dalla cupola di San Pietro. A Roma, durante il mio anno di noviziato – 1946/47 – non perdei occasione, grazie alla condiscendenza del mio venerato padre maestro, di partecipare alle solennissime celebrazioni pontificie, durante le quali la personalità maestosamente ieratica del Sommo Pontefice si dispiegava in tutta la solennità dei riti che si concludevano, tra il tripudio di una folla sempre numerosissima, con quella benedizione che interrompeva di colpo il fragore degli applausi ed elevava sulle nostre teste quella esile figura a forma di croce che ci benediceva. Con la frequenza ai riti da lui presieduti accompagnavamo, noi studenti delle facoltà pontificie, l’assidua frequentazione di quei mirabili discorsi che Pio XII ci regalava ad ogni grande occasione, per non dire delle sue oltre quaranta Encicliche che hanno segnato un punto luminosissimo nella dottrina cattolica, in due campi specialmente: la sacra liturgia, con l’enciclica Mediator Dei, e la riforma del Triduo Pasquale (e gli studi biblici che con la Divino Afflante Spiritu hanno fatto negli ultimi decenni passi da gigante e ci hanno regalato la Dei Verbum del Concilio Vaticano II). Per chi non lo sapesse, nei documenti di questo Concilio, dopo quello della Santa Scrittura, l’insegnamento più citato è quello di Pio XII. Come non ricordare al riguardo i famosi messaggi natalizi, con i continui pressanti richiami alla salvaguardia della pace, per la quale egli lanciò al mondo il famoso monito: “Nulla è perduto con la pace, tutto può esserlo con la guerra”; quella voce purtroppo fu sommersa dal fragore delle armi che non tacquero, arrivarono anzi, in quel terribile 1944, a minacciare la stessa incolumità dell’Urbe se non fosse intervenuto lui, il “defensor civitatis” ad intercedere supplichevole – ricordo che si disse allora essersi lui inginocchiato davanti al comando tedesco – perché fosse risparmiata alla città di Roma e al mondo una prevedibile rovinosa sciagura. Il sottoscritto era a Roma quel 4 giugno 1944 allorchè sparsasi la notizia che i tedeschi avevano rinunziato ad ogni azione bellica e avevano preso la via del Nord Italia, in quella che si sarebbe manifestata come una resistenza disperata, una marea di popolo si diresse in Piazza San Pietro con ogni mezzo per dire grazie a Pio XII, riconosciuto artefice di quel “miracolo”. Ricordo che nel tripudio di quella mattinata, su mezzi di fortuna carichi di persone giubilanti, si potevano notare levati in alto molti pugni chiusi, quasi a significare che nessuna ideologia poteva nascondere quella che era per tutti palese verità. Questa verità che ancora non si fa completamente strada nel cuore di molti, nonostante la mole enorme di documenti impiegati per evidenziarla, siamo certi è destinata, come sempre, a trionfare. Ciò sarà quando finalmente quella devozione che quelli della mia generazione coltivano in cuore potrà esplodere dopo il sigillo apposto dal magistero della Chiesa alla santità di un uomo a cui la civiltà non può non riconoscere di dovere molto. Al riguardo – mi si lasci dire -, non può non meravigliare il silenzio timoroso di quanti, della mia stessa generazione, avrebbero dovuto costituire da tempo un coro insistente e martellante a rivendicare la purezza cristallina di una figura che solo qualche preconcetto ideologico ha tentato e tenta di oscurare. Ma, lo assicuriamo, 'Non praevalebunt'!
Andrea Gema, Vescovo