Il titolo di questa meditazione prende ispirazione dall’icona di Rembrandt: “Il ritorno del Figliol prodigo”. Nel quadro possiamo notare alcuni particolari che sono una vera e autentica rivelazione, infatti, l’arte, quando nasce da una profonda meditazione, ci fa intuire il mistero. Le mani del Padre, che accolgono e abbracciano il figlio ritornato, vestito di logori stracci, con i piedi scalzi e piagati, non sono uguali: la mano destra è quella di una madre, mentre la sinistra è quella di un padre. Non casualmente, l’autore non ha messo sulla scena nessuna donna, proprio per sottolineare che Dio è padre e madre. Altro particolare sono gli occhi del Padre: occhi di un cieco. Il Padre della parabola ha consumato gli occhi nello scrutare l’orizzonte nell’attesa del ritorno del figlio.
Ci accompagnano le parole del profeta Osea: “Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione” (Osea 11, 8).
Racconta un antico midrash rabbinico che Dio, quando decise di creare il mondo, volle fondarlo sulla sola giustizia, ma ogni volta che tentava di crearlo, il mondo crollava, non stava in piedi. Allora Dio creò il perdono e il mondo rimase saldo, rimaneva in piedi. Dunque il mondo si regge sulla misericordia e sul perdono. Il perdono è il fondamento del mondo. Non è un caso che il libro-intervista di papa Francesco in vista del Giubileo della misericordia, porti il titolo : “Il nome di Dio è misericordia”.
Vorrei iniziare questa riflessione con l’icona che ci offre il salmo 131, il gioiello dell’intero salterio, come qualche esegeta lo ha definito.
Signore, non si inorgoglisce il mio cuore/e non si leva con superbia il mio sguardo;/non vado in cerca di cose grandi,/superiori alle mia forze./Io sono tranquillo e sereno/come un bimbo svezzato in braccio a sua madre,/come un bimbo svezzato è l’anima mia./Speri Israele nel Signore/ora e sempre.
Al centro del salmo si staglia l’immagine di una madre col bambino, segno dell’amore tenero e materno di Dio, come si era già espresso il profeta Osea: “Quando Israele era un giovinetto, io l’ho amato… Io li traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore; ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia; mi chinavo su di lui per dargli da mangiare” (Os11,1.4).
Leggiamo nel profeta Geremia in quei capitoli che portano come titolo “Il libro della consolazione”, nei quali il profeta, dopo il tristissimo esilio babilonese, annuncia il ritorno in patria, così parla il Signore: “Non è forse Efraim un figlio caro per me, un mio fanciullo prediletto? Per questo le mie viscere si commuovono per lui, provo per lui profonda tenerezza” (Ger 31, 20).
Il salmo 131 fa parte dei quindici salmi che vengono definiti “Salmi delle ascensioni”, sono quei salmi che venivano cantati durante i tre pellegrinaggi che i fedeli ebrei facevano in occasione delle tre grandi feste annuali (Pasqua, Shavuot, Succot) al Santuario di Gerusalemme. Qui, in questo salmo, il fedele che ha compiuto il suo pellegrinaggio al tempio, esprime tutta la sua gioia, ha fatto un’esperienza di incontro autentico con Dio, che ha sentito soprattutto Padre, Abbà, ma ne percepisce in particolare la tenerezza di madre.
Nella sacra Scrittura Dio è il Padre ma il suo cuore di madre è un abisso in fondo al quale si trova sempre il perdono, così lo sente il profeta Isaia: “Si dimentica forse una donna del suo bimbo, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io mai ti dimenticherò” (Is 49,15). Nello stesso libro profetico più avanti si può leggere quest’altra affermazione divina: “Come una madre consola un figlio, così io vi consolerò” (Is 66,13). A Dio viene a più riprese assegnato un termine ebraico che in prevalenza è applicato alla donna, rahamim, (misericordioso) un vocabolo che designa le “viscere”, il “grembo”. Esso si trasforma in un aggettivo che esprime affetto, clemenza, tenerezza, misericordia. E’ per questo che nel salmo 131 il fedele ebreo si sente “come un bimbo svezzato in braccio a sua madre”. Questa certamente è la più bella icona del legame di intimità che possiamo leggere nella sacra Scrittura, che ci richiama il rapporto di intima amicizia di Gesù col discepolo Giovanni, l’icona che possiamo contemplare nell’ultima cena, nella quale il discepolo riposa sul cuore di Gesù!
Il salmo 22 che Gesù morente prega sulla croce: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Sembrerebbe un salmo di un disperato e di un abbandonato da Dio, ma nello stesso tempo ha parole piene di fiducia e di tenerezza, infatti leggiamo: “Sei tu che mi hai tratto dal grembo,/mi hai fatto riposare sul petto di mia madre. Al mio nascere tu mi hai raccolto,/dal grembo di mia madre sei tu il mio Dio”. (22,10-11). Questi versetti ci svelano un aspetto di Dio che forse mai abbiamo sottolineato e meditato abbastanza. “Sei tu che mi ha tratto dal grembo, mi hai fatto riposare sul petto di mia madre”. In questi versetti Dio ci viene presentato come una levatrice che, una volta che ha tratto fuori il bimbo dal grembo, lo adagia delicatamente e teneramente sul petto della madre; questo è il gesto ancestrale che ogni buona levatrice compie. E’veramente un’immagine di straordinaria quotidianità, ma che non perde mai né perderà mai tutto suo fascino. Dio è la nostra levatrice, sottolinea il salmista. Se poi pensiamo che Gesù morente ha recitato tutto il salmo intero, non possiamo non soffermarci su questi versetti nei quali Gesù evoca il Padre che lo ha tratto dal grembo di Maria nella grotta di Betlemme, e lo ha teneramente posato sul petto della Madre. Gesù morente con la memoria del cuore rivive quel momento in cui riposava sul seno della Madre, mentre ora è inchiodato sulla ruvida croce. Questi versetti del salmo 22 sono veramente da brivido divino.
Nel Nuovo Testamento Gesù non solo rivela il cuore di Dio, si rivela soprattutto come il volto della misericordia e tenerezza del padre. Ma quel volto umano-divino di Gesù è stato tessuto nel grembo di Maria. Quante volte Gesù recitando il salmo 139 ha pensato a sua madre, ha lodato il Padre che lo ha intessuto nel grembo di sua madre Maria: “Ti lodo perché mi hai fatto come un prodigio;/e mi hai tessuto nel grembo di mia madre”. Senza il cuore e la carne di Maria non ci sarebbe alcun visibile volto del Dio con noi. “Nella pienezza del tempo”Dio mandò suo Figlio nato dalla Vergine Maria per rivelare a noi in modo definitivo il suo amore. Così Maria è il crocevia indispensabile, per suprema decisione, attraverso cui passa la comunione tra Dio e l’uomo. Scrive papa Francesco nella Bolla d’indizione dell’anno santo: “la dolcezza del suo sguardo ci accompagna in questo Anno santo, perché tutti possiamo riscoprire la gioia della tenerezza di Dio. Nessuno come Maria ha conosciuto la profondità del mistero di Dio fatto uomo. Tutto nella sua vita è stato plasmato dalla presenza della misericordia fatta carne. La madre del Crocifisso Risorto è entrata nel santuario della misericordia divina perché ha partecipato intimamente al mistero del suo amore”(MV 24).
Maria ha ricevuto il ministero della misericordia dal Figlio morente in croce come l’estremo dono testamentario per tutta l’umanità rappresentata dalla persona del discepolo amato. “Donna, ecco tuo figlio”. Poi disse al discepolo: “Ecco tua madre”. “E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé”.
I santi Padri, meditando sul fianco squarciato di Gesù addormentato nel sonno della morte, dal quale scaturirono sangue e acqua, ne deducono questo straordinario parallelo. Come dal fianco di Adamo addormentato Dio trasse Eva, la prima donna, così dal fianco squarciato di Gesù dormiente sulla croce, Dio trasse Maria, la Nuova Eva, quale madre di tutti i viventi della vita redenta dall’acqua e dal sangue di Cristo.Per quell’acqua da cui ogni uomo rinasce a vita nuova dal grembo della Chiesa, dal grembo di Maria, noi siamo figli della Chiesa proprio perché siamo figli di Maria. In quel Sì pronunciato da Maria nell’intimità della casa di Nazaret siamo stati generati tutti noi. Dal quel sangue scaturito dal costato squarciato di Cristo dormiente, tutti noi veniamo nutriti nella Eucaristia, l’Eucaristia è il sacramento della Chiesa, ma è soprattutto il sacramento di Maria, come cantiamo nell’inno “Ave verum”.
Vorrei terminare questa meditazione contemplando l’icona della santissima Trinità, il cuimistero di comunione e di amore è scandito dal palpito di un cuore di carne, di un cuore umano-divino, quello che il Figlio ha ricevuto dalla Vergine Maria. Un cuore ferito per l’eternità, un cuore ferito d’amore!
A cura di Nazareno Pandozi