“Hanno detto: ‘Venite, cancelliamoli come popolo/e più non si ricordi il nome di Israele’” (Salmo 83,5). “Dicevano: ‘abbattiamo l’albero nel suo pieno vigore, strappiamolo dalla terra dei viventi; nessuno ricordi più il suo nome’” (Ger 11,19).
Parole antiche, ammonitrici, parole da brivido, che abbiamo sentito risuonare, nella versione della vulgata del politically correct in seno alla Commissione Europea.
Si ha l’impressione che nelle cosiddette Nuove linee guida sull’inclusione, si celi, in verità, sia pure sotto mentite spoglie, il progetto di cancellare morbidamente e graziosamente le radici giudaico-cristiane che stanno a fondamento della Civiltà europea. Cancellare la memoria. Cancellare le parole o almeno corromperle: augurare buon Natale potrebbe urtare la sensibilità di chi in Europa non celebra questa memoria e simili amenità come evitare di imporre ai figli e figlie nomi come Maria e Giuseppe, questo almeno è risuonato nella neo vulgata del politicamente corretto.
Nella logica della Commissione Europea dovremmo mandare al macero l’intero patrimonio culturale che la nostra civiltà ha prodotto nei secoli, opere tutte ispirate dai libri sacri della tradizione giudaico-cristiana. La Bibbia è infatti il grande codice entro cui l’arte occidentale ha lungamente operato come afferma N.Frye. Per secoli la Bibbia ha offerto “l’immenso vocabolario” afferma P. Claudel, e M. Chagall definisce la Bibbia come l’“atlante iconografico”,il grande alfabeto colorato a cui ha attinto tutta l’arte occidentale.
Siamo certi che Jean Paul Sartre, questo grande maitre à penser, laico, agnostico, più precisamente ateo, non approverebbe le ilarità della Commissione Europea, come possiamo vedere dalla testimonianza che qui riportiamo, proprio sul mistero del Natale.
Jean Paul Sartre nel 1940 si trova prigioniero in un lager di Treviri, in Germania, suoi compagni sono un giovane gesuita e dei sacerdoti. Sartre è già autore noto: nel 1938 aveva già scritto La nausea ed altre opere. L’identità del suo pensiero non lasciava dubbi, il giovane filosofo non indulgeva certamente né al metafisico né ad una fede nel trascendente. Nel campo di prigionia si apriva ad ampi dibattiti con i suoi interlocutori religiosi; in questo clima di dialogo, avvicinandosi il Natale, i Sacerdoti del campo di prigionia convinsero Sartre a scrivere una pièce teatrale sul mistero del Natale, da rappresentarsi nel campo. Sartre in pochissimi giorni scrisse l’opera teatrale Bariona, ou le Fils du tonnerre, in cui il tema della giustizia sociale, della libertà dalla oppressione si coniuga con quello di una religiosità che in quel momento in Sartre è più vissuta che pensata.
Ne riportiamo qui un frammento del Quinto Quadro (terza scena) in cui la Madonna, la giovane madre, contempla il suo bambino mentre lo allatta.
La rappresentazione di Bariona fu seguita dai compagni di prigionia di Sartre con grande partecipazione emotiva da determinare la conversione al cristianesimo di uno dei prigionieri, toccato dalla recitazione “sincera, ardente, bruciante di fede” di Sartre che interpretava, in maschera la parte di uno dei tre re magi: il mago Baldassarre.
Sartre non ha certamente letto né Basilio né Romano il Melode né Efrem il Siro, chiamato l’Arpa dello Spirito Santo, né è tipo da indulgere alla melassa sentimentale, non erano ancora i tempi del Natale consumistico, il campo di prigionia, comunque, lo preservava da certe cadute o facili concessioni. In Sartre avviene il grande miracolo: là dove la ragione gli chiudeva ogni orizzonte di rivelazione, la poesia e l’arte lo aprivano al Mistero. Nel campo di detenzione nazista di Treviri, un piccolo e fragile seme del Verbo veniva fecondato dalla forza e dal calore dello Spirito, che soffia come e quando vuole, perché la Libertà dello Spirito libera le potenze nascoste nel cuore di ogni uomo. La sublime descrizione viene posta da Sartre sulle labbra di un cieco.
“La Vergine è pallida e guarda il bambino. Ciò che bisognerebbe dipingere sul suo volto è uno stupore ansioso che è comparso una volta soltanto su un viso umano. Perché il Cristo è suo figlio, carne della sua carne e frutto delle sue viscere. L’ha portato in grembo per nove mesi, gli offrirà il seno e il suo latte diventerà il sangue di Dio.
Qualche volta la tentazione è così forte da farle dimenticare che è Dio. Lo stringe fra le braccia e dice: “Bambino mio”.
Ma in altri momenti rimane interdetta e pensa: là c’è Dio, e viene presa da un religioso orrore per quel Dio muto, per quel bambino che incute timore. Tutte le madri in qualche momento si sono arrestate così di fronte a quel frammento ribelle della loro carne che è il loro bambino, sentendosi in esilio davanti a quella vita nuova che è stata fatta con la loro vita e che è abitata da pensieri estranei. Ma nessun bambino è stato strappato più crudelmente e più rapidamente di questo a sua madre, perché è Dio e supera in tutti i modi ciò che essa può immaginare…
Ma penso che ci siano anche altri momenti, fuggevoli e veloci, in cui essa avverte nello stesso tempo che il Cristo è suo figlio, il suo bambino, ed è Dio. Lo guarda e pensa: “ Questo Dio è mio figlio. Questa carne divina è la mia carne. E’ fatto di me, ha i miei occhi, la forma della sua bocca è la forma della mia, mi assomiglia. E’ Dio, e mi assomiglia “.
Nessuna donna ha mai potuto avere in questo modo il suo Dio per sé sola, un Dio bambino che si può prendere fra le braccia e coprire di baci, un Dio caldo che sorride e respira, un Dio che si può toccare e ride.
E’ in uno di questi momenti che dipingerei Maria se fossi pittore.”