ABBRUZZO VISITATO DAL MISTERO NEI GIORNI DELLA CROCE

Quando accade un terremoto il Mistero prende posto tra gli uomini. O meglio, rivela d’essere tra gli uomini. Perché il Mistero, se avessimo gli occhi e il cuore aperti, lo vedremmo tra noi anche in ogni nascita di bambino o di foglia, in ogni evento minimo che procura gioia o stupore. Ma quando il petto ci viene così scosso allora siamo tutti disposti a riconoscere la sua presenza. Siamo tutti richiamati. E in questi casi alziamo gli occhi per vedere se questo Mistero che ci tiene in mano ha gli occhi o è cieco. Se ha le orbite vuote, piene di buio, o se ha un volto buono. Se fa le cose a caso.
O se ci guarda con predilezione. Nel dolore è più difficile guardare. Lo sappiamo, è più difficile.
Il dolore tende a far calare le tenebre sullo sguardo e siamo portati a vedere solo la nostra pena. È naturale, è umano che sia così. E a veder le case, quelle costruite magari con pena e sudore di anni chiudersi addosso agli abitanti, ai ragazzi, ai piccoli traditi nel sonno lo sguardo si appanna.
Viene quasi da pensare che se si abitava ancora in capanne, meno agi meno morte… Ma sono pensieri inutili. Vani.
Mentre arrivano le notizie orrende dall’Abruzzo, terra cristiana, piena di luoghi di miracoli, dove vive tanta bella gente, viene da fissare il fondo delle cose, il fondo dei perché dei terremoti, come il perché delle gemme e dei bambini, il fondo del fondo delle cose che vediamo con i nostri occhi, pronti a illuminarsi di gioia o a velarsi di pianto. Viene da affacciarsi a un pozzo che ora ci appare buio e cieco e gridare: cosa vuol dire tutto questo? Occorre farlo.
Se non lo facciamo significa che la nostra coscienza e la nostra intelligenza fatta per leggere i segni della vita sono ottuse. Se non lo facciamo, pur a costo di avere capogiri dell’anima, significa solo che siamo meno uomini, non più cristiani. Perché il cristiano non è fatalista. Il cristiano fa domande in faccia a Dio.
Tratta Dio come Dio. Non crede a una natura madre che diventa matrigna così, tanto per gioco.
Francesco, il santo e poeta, lo sapeva bene. Loda le creature, ma non chiama mai madre la natura.
Sapeva che gli uccellini sono belli, ma anche che il lupo è feroce, che l’acqua è chiara ma sapeva che la lebbra da baciare è orrenda lebbra. Che la natura è sorella, ha bellissimi pregi che indicano una creazione buona, ma è anche piena di difetti, come noi. Sorella, non madre. E Francesco loda gli uomini, tra le creature, che sanno perdonare e sopportare il male in nome di Dio. Perché sono suoi. Perché non sono della natura, ma di Dio.
I cristiani di Abruzzo prendano Francesco come guida in queste ore dolenti. Il cristiano nella settimana in cui Cristo si fa esporre sanguinoso sulla Croce dove grida in faccia a suo Padre «perché mi hai abbandonato?», grida con lui. E chi grida al Padre, anche nelle ore del dolore, non solo nelle ore della pace, sarà ascoltato. Invece il vento, le macerie, un cielo pensato come vuoto no, non ascoltano nessuno. E ricacciano ciascuno nella propria disperazione soltanto. Già lo straordinario impeto di amicizia, di soccorso di queste ore è il primo segno che il cuore dell’uomo è fatto per il bene, per donare. Il segno che il Mistero che nostro Padre ci ha inciso nel cuore è il bene.
Perché è un Dio buono. Tale affermazione, in queste ore, è la più desiderata e necessaria. Può non essere uno scandalo solo fissando la croce e i segni del bene. Può essere ragionevole e umano, tra le macerie, affidarsi a un Dio buono.
Dall’Abruzzo visitato dal Mistero, terra ferita e splendida, dove dimorano le ossa dell’apostolo Tommaso e i segni di tanti miracoli, può venire a tutti noi, così vacui e distratti troppe volte, un richiamo potente. Ed estremo. A essere uomini.

© Copyright Avvenire, 7 aprile 2009